Presentazione ciclo conferenze Le forme dell'essere in relazione

20.10.2025

Le forme dell'essere in

Presentazione ciclo conferenze "Le forme dell'essere in relazione" del filosofo Marco Scevola.

"Amavo la mia rovina, amavo il mio difetto, non ciò per cui cadevo, ma la mia stessa caduta. Anima turpe, che abbandonando la tua fermezza ti precipiti nella distruzione, non compiendo qualcosa di turpe, ma abbandonando Te, o Signore, e questo è la turpitudine."

Così Agostino D'Ippona, nel secondo libro delle sue Confessioni, descrive la caduta non come semplice atto morale, ma come frattura dell'essere, un cedimento della soglia che separa l'uomo dal divino: un momento liminale in cui l'individuo si confronta con la propria vulnerabilità e fragilità ontologica. La volontà è contaminata e causa della perdizione umana. Il Signore, in questo affresco, appare come paradigma in cielo che orienta, e orientando salvaguardia l'uomo dalla disfatta che trasceglierebbe se abbandonato dalla luce. È infatti per Agostino sola salvezza il richiamo all'anima, a quella luce divina in noi. Qua si parla del furto delle pere. Da giovane il Santo, mosso dalla gola, rubò delle pere con la banalità propria del male. Un male quasi involontario, pressoché istintivo, ma che pur nella sua assenza di macchinazione non si potrà mai apostrofare come atto buono o neutrale. Citando il titolo di un capolavoro contemporaneo, firmato Lorenzo Magnani: conoscenza come dovere. Usufruire del nostro prossimo come mero oggetto non può che ledere la nostra stessa inviolabilità. Anche gli oggetti in verità, come ribadisce Magnani, presentano una loro dignità; la dignità propria dell'ambiente che ci circonda e che dovrebbe venir preservato. Nondimeno, per quanto concerne la questione umana, il Bergson fu assai chiarificatore. Nel mio prossimo ravviso me stesso. Un me stesso in terza persona che è Dio. Insomma… la consapevolezza della mia inviolabilità e sacralità la riconosce non intuitivamente e in solitudine, per converso, risulta essenziale il rapporto intersoggettivo con il mio simile. Io mi riconosco attraverso l'altro, e nel momento che definisco il mio alter ego non posso che denotarlo come "ciò che non profanabile". Questo lo si trova scritto un po' in tutti i libri sacri fin dall'alba dei tempi. Il rapporto che mi lega con il mio simile ha una valenza fondante per la mia definizione; tant'è che conosciamo la deriva filosofica in merito. Ovverosia la negazione della sostanzialità dell'individuo e l'ammissione che l'individualità debba venir ricondotta necessariamente alla collettività che ne è organismo.

Il furto è indubbiamente nocivo, sia che si attinga a una lente civile e sia pedagogica. Costruttivo è infatti il sacrificio direzionato allo scopo, perché in questo limite materiale manifestiamo il nostro essere nel mondo. Essere nel mondo significa progredire conformemente a scopi, intraprendendo talvolta tragitti per niente immediati. Gehlen parla di esonero. L'essere umano non è una vacca che bruca l'erba se le viene posta dinnanzi. Provate a dare del cibo a un gatto. Si farà venire la pancreatite pur di non avanzarlo. Parlo ovviamente di un gatto selvatico, non di quelli viziati, aventi acquisito l'induzione del tacchino del buon Russell. I gatti domestici cadono nella fallacia del ritenere il probabile come certo. "Se mi hanno nutrito per cento giorni di fila, riterrò certo che il giorno centouno riceverò vitto", ma tutti noi sappiamo che fine ha fatto quel succulento tacchino. I nostri gatti viziatissimi non sono un buon esempio in effetti. Certamente a distinguere il primato umano è la dote di indietreggiare di fronte al quadro. Badare alle singole campiture ma anche all'affresco nella sua vastità totale. Questo freno dall'immediatezza ci contraddistingue; propriamente nostro il peccato della macchinazione. Certo, parlando sempre di felini, anche essi sono soliti nell'esecuzione di agguati. È un'ovvietà. Eppure, ai felini l'agguato è inscritto geneticamente. Al contrario, l'uomo è chiamato all'esonero per costituire forma gregale, civile complessa. L'uomo delle origini non si è trovato fin da subito esonerato dall'istinto. Questa è un'acquisizione su cui può delucidarci assai Jung. Vi è una forma di memoria collettiva dell'inconscio collettivo. Là buttiamo tutto ciò che ci scomoda. Tuttavia, non è un cestino a cui seguirà la combustione. Le cartacce vanno ad accumularsi. Ciò che buttato nell'inconscio collettivo è plinto per l'attuale torre di Babele sociale. Nella negazione delle condotte potenziali umanissime ma non civili (quali l'omicidio), si va edificando la coscienza umana come contraria all'assassinio. Ne consegue pertanto che un omicida, per il suo essere stato responsabile di assassinio, sarà connotato con disprezzo e causerà repulsione al senso comune. Questo comun sentire non è dunque da oggettificare. Il senso comune non è una roccia che è lì da sempre senza un perché (postulando che sia così per le rocce, tesi sulla quale dubito assai). Orbene, la genesi del senso comune che è motore per il senso di appartenenza a gruppi sociali, nazionalismi, eccetera, è da rivenire nel processo sociale collettivo con cui tutti gli esseri umani, progredendo nel conoscersi mediante rapporto intersoggettivo, falcidiano certe condotte perché disgregative dell'unità civile. Ha palesemente una utilità biologica: uniti si è più forti e si hanno più possibilità di vittoria che in solitudine o in gruppi minoritari. Così siamo arrivati all'attuale individualismo. Viviamo in metropoli affollatissime ma apparentemente niente ci lega con i nostri vicini. Si può non a torto applaudire alla biologia evoluzionista. Ci ha garantito la sopravvivenza a scapito del contenuto. Fate una passeggiata a Milano o a Nuova York. Quello è lo scheletro della civiltà! Si è uniti per via dell'interesse comune, che è quanto di più singolare: la propria sopravvivenza materiale.

Sempre Agostino, nel secondo libro della Doctrina Christiana, capitolo 40, parla del furto sacro. "Gli Egizi avevano idoli e pesi gravosi da cui il popolo d'Israele doveva distanziarsi, ma possedevano anche vasi, ornamenti d'oro e argento, e vesti preziose che, per segreto consiglio di Dio, furono sottratti non per uso personale ma per un fine superiore." Questo gesto diventa paradigma di una appropriazione etica della cultura altrui, un principio che attraversa la filosofia, l'antropologia e la storia delle religioni: la conoscenza e gli strumenti culturali, anche se originariamente "profani", possono essere trasformati in luce, in lumen, attraverso il passaggio dalla caduta alla redenzione. Da qui nascerà la teologia. In principio fu il Verbo diviene l'essere dei filosofi ateniesi.

In chiave psicologica, Winnicott introduce il concetto di spazio potenziale, interpretabile anche in senso spirituale: uno spazio-limite, un "tra" che unisce interno ed esterno, umano e divino, io e non-io, e che diventa luogo di creazione, trasformazione e incontro. La soglia non è solo fisica, ma psichica e sociale: è nello spazio potenziale che nascono il gioco, la creatività, l'esperienza estetica e l'atto morale. È il come se che è esplicito nella similitudine e implicito nella metafora. In questo spazio del "tra" che è soglia lochiamo l'arte. Nei crocicchi delle strade romane, questa dimensione liminale si incarnava nei Lares Compitales, divinità protettrici dei compita, incroci urbani o rurali. I Romani erigevano larari compitalia, piccoli altari dedicati ai Lari e al genius vicorum, e celebravano i Compitalia con offerte di miele, focacce e bambole. L'incrocio non era solo confine, ma sede di protezione e rinnovamento comunitario, simbolo di come l'umanità organizzi lo spazio e il sacro, delineando confini entro cui la vita sociale e culturale si dispiega.

Spesso in questi crocicchi sorgeva la statua di Mercurio psicopompo. Colui che accompagna le anime dei morti dall'ambito terreno all'aldilà, ereditando la funzione greca di Hermes e mostrando come l'unione e il passaggio siano sempre mediati dal confine: il limes. Il limes, cioè, confine, nasce da limen, cioè soglia. Questa relazione tra confine e transizione è centrale non solo nella religione, ma anche nella psicologia della soglia, in cui l'individuo attraversa momenti di trasformazione profonda che segnano lo sviluppo del Sé.

Avendo menzionato l'arte poetica, prendiamo un esempio enfatico. La poesia di Charles Cros, La Tique. Questo componimento offre una metafora potente di questa soglia tra vita e morte, eros e sacrificio: una zecca, bevendo il sangue del poeta e della sua amata, li unisce in un unico essere minuscolo. L'atto di perdere vita diventa legame più forte del mondo stesso, simbolo della fusione tra il singolo e l'altro, tra limite e comunione.

Come scrivo in Grimorio dei rituali occulti, la fede, simile a questo atto, è salto nel vuoto, adesione a un'interpretazione contro-intuitiva del panorama etico, vertigine che ribalta la morale evoluzionistica del mors tua vita mea (su cui torneremo). L'uomo, consapevole della propria precarietà, prega (precarius), riconoscendo che l'esistenza non può reggersi isolata. Perché vi sia un io coerente, una coscienza nitida, è necessaria l'intersoggettività, la prima forma di riconoscimento dell'alterità che trascende il corpo fisico e la comunicazione non verbale. Definire l'esperienza attraverso unità di misura distinte, come voler spiegare la pellicola cinematografica solo attraverso la cinepresa, non coglie il fenomeno dinamico della coscienza. La facoltà immaginifica precede quella analitica: l'uomo costruisce miti e narrazioni che intessono memoria, esperienza e coesione sociale, come la fratellanza dei lupi si manifesta solo nel branco e nell'istintività. Diversamente dall'animale, l'uomo non si accontenta dell'utile: cerca senso e comunione, conferendo valore a ciò che è logico e concreto.

L'etimologia di capere, "prendere, afferrare, contenere, accogliere", testimonia questo processo: ciò che è fisico diventa concetto, cattura diventa conoscenza, prigioniero diventa metafora di sottomissione e malvagità, afferrare un'idea significa capire. La conquista e l'afferrare non sono meri strumenti, ma modalità di relazione con il mondo, che implicano potere, conoscenza e trasformazione dell'esperienza. L'uomo trascende lo strumento pratico e ludico: il gioco non è solo addestramento, ma creazione di un mondo autonomo e simbolico, anticipazione di strutture sociali e culturali.

Le parole lumen e limen, pur non etimologicamente imparentate, si intrecciano simbolicamente. Limen indica soglia, confine, passaggio, mentre lumen significa luce e visione. Nella cultura romana e cristiana, la soglia è il luogo dove appare la luce. Giano, custode delle porte, apre il giorno come apre il passaggio: limen e lumen si incontrano nella figura di chi presiede soglia e lume. Agostino scrive: "Et perveni ad id quod est, percutiens oculum animae meae radio solis tui", esperienza della luce divina che si manifesta oltre il limite del visibile. In chiave moderna, il limen è soglia della coscienza, il lumen luce della consapevolezza: attraversare la soglia significa portare al chiarore ciò che era nascosto. Una svestizione che è sacrificio e darsi, che nondimeno è un accrescimento e non un depauperamento. Il messaggio misericordioso cristiano qui è adottabile a pieno. Privarsi del materiale quando in eccesso non arreca solo perdita. E ancora, questo dualismo tra materiale e spirituale dovrebbe venir meglio elaborato.

Merleau-Ponty, nella Fenomenologia della percezione, offre una critica radicale al dualismo cartesiano tra res cogitans e res extensa. Il corpo non è semplice oggetto materiale, né la mente entità separata, ma un'unità incarnata in cui percezione e coscienza si intrecciano. La percezione non è mera rappresentazione, ma esperienza attiva che coinvolge corpo e mente in dialogo con il mondo, permettendo di superare il razionalismo assoluto. Concetti come praktonosia o praktognosia indicano una conoscenza pratica che emerge anonima, incorporata nelle potenze del corpo, mostrando come la coscienza si dispieghi sempre nella dimensione incarnata e situata. L'esperienza estetica e musicale, in particolare, permette di intuire la molteplicità del reale, andando oltre le categorie razionali e linguistiche, recuperando dimensioni profonde della soggettività.

L'antropologia contemporanea conferma questa prospettiva: i riti, i miti e i giochi di comunità, come quelli dei Lares Compitales o delle pratiche sciamaniche, rappresentano soglie attraverso cui il gruppo struttura l'esperienza collettiva, organizza il tempo e lo spazio e trasforma la paura della precarietà in narrazione condivisa. La soglia è sempre un momento di passaggio, di negoziazione tra mondi, e il corpo è il medium primario di questo attraversamento.

I torii giapponesi, ad esempio, non sono semplici portali, ma soglie rituali che separano il mondo profano dal sacro, segnando il passaggio verso il divino. Attraversando il torii, per lo Shinto, il fedele non solo entra in uno spazio sacro, ma viene simbolicamente illuminato, riconoscendo la presenza degli kami e il potenziale di trasformazione spirituale insito nel contatto con il sacro. In questo senso, il torii è il limen che prepara il lumen: la soglia in cui la coscienza e la percezione si aprono alla visione del divino, simile a quanto Agostino descrive nelle Confessioni o a quanto Winnicott indica nello spazio potenziale.

La poesia di Ruben Darío sull'imitazione del bello e inusitato poetico sottolinea infine come l'uomo imiti non per mera ripetizione, ma per diventare, per apprendere modalità di esistenza e relazioni con l'altro, generando senso e cultura. La perfezione noi da italianisti la conosciamo bene. Endecasillabo è il maestro della perfectio-perfectionis, cioè della compiutezza all'orecchio. Così, le forme dell'essere si rivelano sempre come soglie attraversate, come luce che si manifesta attraverso confini, come percezione incarnata, come legame tra caduta e redenzione, tra io e alterità, tra corpo e mente, tra materia e spirito, tra esperienza individuale e tessuto collettivo.

Ogni attraversamento, ogni soglia, diventa quindi occasione di ampliamento della coscienza, di creazione di senso e di relazioni etiche e simboliche che fondano l'umanità stessa.

Darío nel suo saggio sul modernismo scrive: "Es dar toda la soberanía que merece al pensamiento escrito, es hacer del don humano por excelencia un medio refinado de expresión, es utilizar todas las sonoridades de la lengua en exponer todas las claridades del espíritu que concibe". L'arte diventa così strumento attraverso cui l'Essere e la coscienza si manifestano, veicolo di perfezione, musicalità e visione, in una continuità ideale con la percezione incarnata heideggeriana e con la soglia parmenidea.

Adoperando una sintesi, la storia del concetto di Essere mostra una dialettica tra immutabilità e fenomenalità, tra materia e coscienza, tra principio e manifestazione. Parmenide offre la stabilità dell'unità, Epicuro introduce l'esperienza sensibile e la materialità, Heidegger propone l'esperienza fenomenologica e temporale del disvelamento. Questa dialettica continua a orientare la filosofia contemporanea, la psicologia, l'antropologia e la teoria estetica, offrendo strumenti concettuali per comprendere il rapporto tra soglia e luce, tra limen e lumen, tra percezione incarnata e manifestazione dell'Essere. L'essere si manifesta così come evento, come esperienza e come creazione, attraversando la soglia dell'umano e del divino, del corpo e della mente, della materia e dello spirito.

Questa componente più icastica, cristallizzata a confronto con l'astrazione pura che è questa nostra facoltà di trascendere, esonerarci, è una pulce. Per i poeti è un parassita. È ciò che Mario Vegetti delinea nella sua ambivalenza della figura del Filosofo. Egli è intermediario tra utile e dilettevole. È colui che più è desto e cosciente sull'essenza ineffabile del mondano. Deve comunque viverci, nel mondo. Ciò nonostante deve anche estraniarsi dalla doxa che è mastice per l'armonia dei suoi simili. È un critico dello stato di cose presente, un Prometeo ribelle, il quale donativo, il fuoco, è in suo possesso proprio grazie alla gerarchia olimpica che vuole sovvertire. Si ribella al comando con i mezzi concessi dal comando stesso. È stato contagiato dalla malattia del filosofare. Malattia che in parte ha comportato l'attuale epoca delle passioni tristi. Riprendendo Le bucoliche di Virgilio, siamo come il Méris demotivato che svilisce l'anelito del giovane Licida. I due poeti sarebbero gemelli per devozione, sacerdoti della stessa Euridice, però a disunirli l'arrendevolezza vigile, realista di Méris. Le passioni tristi non sono altro che la decadenza che segue l'iperbole. Non è che qualcosa sia cambiato in noi all'avvento del capitalismo assoluto. Semmai abbiamo guardato negli occhi una sfinge senza ascoltare l'ammonimento circa la sua pericolosità. Abbiamo votato quel consumismo che ci grida in faccia tutti i giorni che valiamo in base a quanto consumiamo. Che tutto è fugace e temporaneo. Quel sacrificio, pertanto, ci lusinga meno che mai. Il sacrificio di Cristo sulla croce, che è l'albatro crocifisso di Coleridge o ingabbiato sulla stiva di una nave, ci è oggi senile sentenziosità. Chi più vede verrà canzonato, sia esso il Tiresia di turno o il goffo albatro se privo di volo. Spontaneo quindi il quesito "perché smungersi tanto il volto?", e questa replica viene non dalle tenebre dell'ignoranza, ma dalla lungimiranza di costoro che assai attinsero al meglio dell'umano sino a venirne dilavati.

Se non a contatto con il suo elemento, la trascendenza, il filosofo-poeta è tutt'altro che elegante. Sarà capro espiatorio. Sono incliti gli studi di René Girard e di Ernesto de Martino. Non tutta la violenza umana è sublimabile. Perciò la si canalizza verso un soggetto x, che diverrà per noi quel capretto da gettare nel deserto con a dosso tutti i nostri peccati. Sarà lui il responsabile di ogni nostro male. Il demonio in terra. La tesi di de Martino integra di più il concetto di angoscia e trauma. Se per Girard il processo di congiura è sociologico e finalizzato a eludere il conflitto sociale, per de Martino non è al centro la violenza innata, quanto un trauma esistenziale nonché la resilienza. Anziché mutare le premesse sociali e correggere i moventi dell'afflizione (se correggibili), si scaraventa fango contro il meno conformato al modello ideale. Qualcosa ne sanno gli untori sociali, queste icone del ventunesimo secolo mediatiche che ricevono quotidianamente "shit-storm", traducendo: tempeste di merda. Per de Martino è un ripetere questa ritualizzazione del martirio del capro espiatorio. Elaboriamo la paura di essere noi chi congiurato, e questo perché sappiamo bene che potremmo divenire vittime dell'emarginazione prescritta dal gruppo di appartenenza. Come si suol dire mors tua, vita mea. Questo lo sanno benissimo in primis i leader dei gruppi sociali. Quegli archetipi che hanno sulle spalle tante di quelle aspettative da divenire cattivi, cioè captivi, ovvero prigionieri della rappresentazione che gli estimatori hanno di loro. E in questo contesto si inscrive la mia teoria dei mercati di valore. La società di oggi non ha elaborato affatto la morte di Dio, però è divenuta materialista, altresì ciò che ne consegue è l'idolatria. Questi archetipi, che definisco untori sociali, si fanno propugnatori di valori elementari. Lobotomizzanti frasi fatte dalla vaga profondità mendace alla Rupi Kaur. Questa schietta irriverenza è facilmente digeribile e galvanizza persino il pubblico più analfabeta.

Essere in relazione unico vero modo dell'essere. Cioè si assume un immanentismo come processo di incarnazione dell'essere nella sua parcellizzazione unitaria. I singoli puntini che costituiscono la retta di Dio, aggregati insieme per illuminare un segmento e così tastare insieme quel drago invisibile nel garage. Carl Sagan nel suo lavoro Il mondo infestato dai demoni, al fine di esibire la stupidità di prove ad hoc per legittimare empiricamente le speculazioni metafisiche, espone la parabola del drago invisibile nel garage. C'è un drago il cui fuoco non fa calore. È incorporeo e nessuna vernice può attaccarsi. È nel mio garage, implicitamente dove tu non hai accesso. Sagan coglie il punto: il dualismo tra contingente e trascendente non può mantenersi coerentemente. E affinché si coadiuvino i due estremi, una prospettiva incarnata è la sola a redimere le derive cognitiviste americane. La materia è già di per sé simulacro. Discernere materia propriamente detta e idea platonica non può che determinare un insolvibile dualismo, che non ammette alcuna soluzione proprio perché dedotto dalle premesse. È difatti una tautologia, assunto il noumeno come contenuto essenziale indecifrabile e il fenomeno come ciò che si dà, concludere sulla impossibilità di conoscenza del noumeno nonché che la nostra conoscenza sia solo del fenomeno, per forza di cose imperfetto. Di seguito l'intricato gioco di certi filosofi, ovviamente infruttuoso, di cogliere il noumeno. E se dicessi che l'essenza è l'essere nel suo totale manifestarsi? Noi come poli egologici temporali e spaziali, finiti, non potremmo che essere in preda al fenomeno. Nondimeno, questo noumeno tanto inerte e che non concede crescita al filosofo, sarebbe finalmente investito di una sua utilità maggiore. Da questa evidenza della nostra finitudine l'imperativo di Gabriel Marcel: siamo precipitati dall'essere e ciò determina la nostra indisposizione verso il prossimo. Siccome precipitati come quei puntini d'inchiostro dalla penna, ci convinciamo di essere solo un puntino ciascuno. Dovremmo darci al prossimo per costituire un segmento unitario. E se nella relazione con il prossimo riconosciamo la somiglianza che è reminiscenza dell'anima del prossimo e così della nostra e da qui Dio retta, nella morte della carne la massima di condotta, ben esplicitata da Miguel de Unamuno in Sul sentimento tragico della vita umana: "Facciamo in modo che il nulla, se questo ci è riservato sia ingiustizia, lottiamo contro il destino anche senza speranze di vittoria, lottiamo contro di esso donchisciottescamente."

Siamo ora come quel Don Chisciotte che diviene folle dopo aver letto troppi libri. Ha percepito la consistenza ontologica della morte e, come ogni io dovrebbe teoricamente replicare, si scinde. Diviene schizofrenico. Quello che sarà l'epico viaggio di Don Chisciotte è l'itinerario esteriore, nel mondo del consumo, di un'anima in pena. Muoverà guerre vane perché dal mostro interiore. I giganti sono dentro di lui. I mulini a vento sono solo un espediente empirico volto alla proiezione dei suoi demoni. Questi sono i demoni di cui l'uomo è reduce. La condizione umana è intrinsecamente liminale. Lo sapevano già i dionisiaci. Dionisio, colui che sbrandellato dai titani, e dalla cui divinità deriviamo noi. In noi tutto questo: l'altro che è Dio, noi Dio che ci riconosciamo con l'altro e quel tutto Dio per cui non siamo che un tassello alienato, declinato, incarnato.



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