Le ceneri di Roma è un poema destrutturato,
filosofico, esistenziale e sociale, anteceduto e succeduto da dissertazioni
antropologiche e filosofiche.
L'avvento della pandemia di Sars Covid19 ha inciso
psicologicamente sull'umanità, e le mutazioni sociali cagionate dalla
detenzione domestica e dalle anti-umane, qualora si definisca il bipede ζῷον
πολιτικόν, restrizioni hanno deformato lo stato di cose repentinamente,
attentando al dogma psicologico che soggiace alla quiete antropica
dell'immutabilità. Tuttavia, l'isolamento domiciliare e il distanziamento hanno
messo in mostra la solitudine esistenziale dell'uomo nonché l'inettitudine
sostanziale vincolante egli al giogo della natura, che con indipendenza verso i
parametri di superiorità artificiosi mediante i quali l'uomo si elegge vate, la
natura condiziona il pericolante condominio sul quale egli si arrampica come
fosse ancestrale albero suo.
Altresì, rimemorando l'amico Alessio defunto, il poeta
viaggia alla volta di Roma Capitale fruendo dell'infrastruttura ferroviaria
meneghina di Milano Centrale, ove egli si strugge dianzi alla cinesi del
ghiaccio che omologa il vivere di milioni d'animi che negano la propria
speciosità per motivi economici e sociali, di inserimento in società. La
redarguizione sulla degenerazione dell'intessuto comunitario italiano,
nondimeno, circoscrive un'assai più ampia descrizione critica dell'oscurantismo
consumista verso il quale imperversa il sentimento europeo, ormai candeggiato
dall'avvento del neoliberismo scientista americano.
Nel cimitero acattolico di Roma, precisamente sulla
tomba di J. Keats, termina la prima parte del poema post-cubista, con la
temporanea sussiegosa speme che l'amore possa sanificare le ulcere dolenti
dell'artista del ventunesimo secolo. Ovvero, la sospensione del razionalismo
poetico si esplicita nel verso libero e nella parcellizzata cristallizzazione
a-temporalizzata dei sentimenti dell'innamorato aedo, dall'infatuazione
idealizzata della musa sino alla decadente presa di consapevolezza della
carnalità della Venere. L'idolo, nietszchianamente, viene, hegelianamente,
assimilato per mezzo del negativo fattuale, non opponendosi a esso, bensì
superandolo, introducendolo nel percorso intimo attraverso la tematizzazione,
demistificandone l'aura di sacro infrangibile.
La seconda parte del poema, che ricalca il potere
astrattivo come prerogativa della poeticità della prosa in analogia con il
Kaddish di A. Ginsberg, Umano alfabeto alieno, smorza l'atavica
ampollosità classica della prima parte, disorientando il lettore cosicché egli
sperimenti una sensazione di sregolata comunicazione sensoriale, ritmica e
frammentata al confronto con Le Ceneri di Roma, nome del poema nonché
della prima parte del poemetto, quest'ultima declinata in Arbitrio e Prometeo
inumato. In essa si evince l'adesione alla prosodia bop di J. Kerouac,
"ammodernata" dall'ermetismo di Mario Luzi nella sua inclusività del contesto
cittadino cosmopolita, al quale, invero, è già ispirata Arbitrio, quantunque
con un lirismo che si mescia meno soffuso con il concettualismo, più impestato
dal modernismo di Manuel Gutiérrez Nájera e dal simbolismo di Paul Claudel al
confronto con Umano alfabeto alieno, che si inserisce nel contesto
poetico post-beat generation.